Un visitatore alle mostre

di Manlio Lupinacci

Sono stato fra gli utlimi visitatori dell'Esposizione di Torino; di quelli che ci sono andati quando le nebbie mattutine annunciano ai torinesi che il sole prossimo a farsi vedere e' un sole gia' intorpidito dal letargo invernale dei soli del Nord. Devo dire che non avevo gran voglia di visitarla: prima di tutto ero imbronciato con l'Italia '61, non quella stesa sulle rive del Po, ma quella stesa dalle Alpi allo Jonio, che in tutto quest'anno del Centenario mi e' apparsa fiacca, svogliata, senza fervore; e avevo finito col ritirarmi sotto una tenda di Achille intessuta di malumore e di pessimismo, pensando che in fin dei conti il miglior modo di commemorare l'Unita' era rifarne la strada lungo il carteggio cavourriano, per conto mio: "pe' vvie sulagne", come l'innamorato tradito della canzone di Piedigrotta.

Poi avevo verso l'Esposizione stessa motivi di diffidenza e di scetticismo. Ho fatto parte del comitato ormano organizzatore dellapartecipazione della capitale all'Esposizione, e in questa qualita' avevo assistito a riunioni in Roma e in Torino; ebbene non ne avevo riportato certamente un sentimento speranzoso: vedevo che tutto procedeva a rilento, che i mesi passavano, ma le discussioni no. Un giorno ero anche statto invitato a fare un sopralluogo ai lavori di costruzione del padiglione romano, naturalmente con gli altri componenti del comitato. C'era l'ex sindaco Rebecchini, e c'era il Presidente della Provincia Giuseppe Bruno: l'ottimismo romanesco di Rebecchini, che gli ha permesso di prendere la Roma del '48 e di rifarne, in meno di quattro anni, una capitale "a posto", sorrideva intrepido mentre diguazzavamo nella fanghiglia brumosa, ci arrampicammo su scalette di fortuna, inciampavamo nei detriti abbandonati; ma sul viso magro dell'avvocato Bruno la severita' calabrese radunava ombre sempre piu' fitte nelle quali passavano evocazioni di villaggi terremotati, di plaghe senza redenzione. E io ero solidale con Bruno: lo sgomento invadeva l'animo mio con la stessa intransigenza con la quale il freddo mi invadeva le ossa. "Qui - pensavo - l'esposizione non si fa; mancano si' e no sei mesi all'inaugurazione e non c'e' niente".

Non c'era davvero niente: nemmeno gli operai al lavoro.Ne avvistammo un paio: "saranno napoletani", pensai, con la simpatia autodenigratrice e divertita di noi del sud, vedendo che non facevano nulla se non alitarsi sulle manone amaranto; ma un "chiel" e un "andöma" che si scambiarono per avviarsi alla mensa me li dissero piemontesi e allora persi l'ultima facolta' di confidare: se anche i piemontesi fanno cosi', e si riducono all'ultimo momento, l'Italia '61 la inauguriamo per il centenario della Breccia di Porta Pia.

E il luogo scelto? Qualche cosa disimile lo avevo visto nei film di guerra in Polonia: un vento gelato che non trova niente da urtare, se non radi alberelli e scheletri di costruzioni; una piana scoraggiante, dove non sai se l'erba stia morendo negli orti calpestati o nascendo nei tracciati delle strade sconvolte; qua e la', opachi specchi bruniti di pozze ghiacciate di melma. Possibile che non ci fosse un altro posto da scegliere, con una citta' che ha dintorni tanto belli? Quasi quasi mi pentivo di aver sostenuto, da assessore comunale di Roma, da giornalista, il diritto di Torino a essere sede dell'esposizione del Centenario invece della capitale. Ero deluso, e ne volevo a Torino come se avesse ingannato una mia personale fiducia, un impegno preso anche con me per tutto l'affetto riconoscente e memore che le ho votato.

Percio', quando venne la gran giornata dell'inaugurazione lasciai sprecare il biglietto d'invito. Un poco me ne pentii quando giornali e documentari mi costrinsero a ritirare lealmente le mie previsioni sconfortate e a constatare che la landa tormentata adesso era un bellissimo paesaggiodove tutto era in ordine, tutto era compiuto: o che non v'era di incompiuto piu' di quel consueto margine che si trova regolarmente a ogni inaugurazione di esposizione internazionale. Si vede, pensai rallietato, che cio' che a me era sembrato pigrizia, lentezza di organizzazione, era invece semplicemente il vecchio "bougia nen" dei piemontesi, che non si mettono in orgasmo se vien loro addosso una grossa responsabilita', ma l'affrontano con pacatezza, con l'aria di niente. In fin dei conti, anche l'Unita', cento anni or sono, l'hanno fatta cosi': sei mesi prima, non c'era nulla, e poi, il giorno stabilito dal destino per l'inaugurazione, tutto e' a posto per la cerimonia; meno, sia pure, il padiglione romano e quello veneto, ma questo rientrava appunto in quel tale margine di ritardi che dicevo prima.

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E cosi', alla fine, treno, albergo, taxi, esposizione. Un viaggio da Roma a Torino, una serie di viaggi dentro l'Esposizione. Dico subito che non ho preso la monorotaia per questi viaggi: funicolari, seggiovie e monorotaie, per chissa' quali remote angoscie infantili, poco mi dicono. Del resto, la monorotaia e' bella a vedersi dal di fuori, quando passa scivolando sulla lama che la sostiene: una volta dentro i suoi vagoni, mi pare debba essere come stare in filobus, e quando si vuol guardare, non si va in filobus. Ora io volevo guardare; anzi, esaminare, come un medico sospettoso esamina un paziente per scoprirgli le magagne che quello vuol nascondere.

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Cominciamo da Giove: il palazzo del Nervi, che domina il terreno dell'Esposizione come ha dominato le polemiche. Si', e' enorme, immenso, ciclopico (no, ciclopico no: e' una parola che da' l'idea del massiccio, del roccioso, ele costruzioni del Nervi, quando mai sono massicce, quando mai non sono porate in alto ealleggerite dalle sue aeree audacie spaziali? ); ma il suo scopo e' appunto di essere immenso. Come lo scopo della Torre Eiffel era di essere alta: quando la costruirono, nessuno prevedeva di utilizzarla come stazione della radiotelegrafia, che sarebbe stata inventata qualche anno piu' tardi; spunto' e zampillo' verso il cielo gratuitamente, per celebrare il lavoro con la sua inutilita' premeditata, precisamente come il campanile di Giotto si lancia verso il sole nulla aggiungendo all'efficacia delle preghiere cui invita i fedeli, e tutta via glorificandoli. (.......) ...questo palazzo del Lavoro doveva esserecosi': immenso, e magari inutile. E' una testimonianza e un dono, non deve essere altro che questo, col solo impegno di essere all'altezza dell'immensita'delle forze cui e' dedicato.

Che poi davvero debba essere inutile perche' troppo alto, troppo largo e troppo lungo, perche' insomma troppo imperialista nella conquista delle tre dimensioni, questo mi sembra davvero partito preso. Certo, sepretendiamo di riempirlo con le sole risorse nazionali, puo' darsi che risulti un po' comodo: ma un edificio dedicato al lavoro e alla scienza del nostro secolo, se non saremo stroncati da quella specie di infarto collettivo che minaccia l'umanita' con i megaton, credo che faremo presto ad accorgerci che di spazio non ne ha poi tanto da sprecare.

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La visita a "Italia '61" era finita: eppure mi sembrava che la citta' stessa facesse parte delle mostre, e che aggirandomi sotto i suoi portici, soffermandomi ad ammirare la dignitosa geometria di Piazza San Carlo e quella tromentata di Piazza Castello, dovessi ancora continuare a esercitare la curiosita' di una inaugurazione. Non comprendevo questo mio stato d'animo, non era la prima volta che ero venuto a Torino e ne avevo gia' consciuto il fascino, lento a cogliersi e che poi non ti lascia piu'. Poi compresi: appunto questo fascino era mutato e ora inauguravo per i miei ricordi e per il mio affetto una Torino diversa, quale la dovrebbe rivelare agli italiani, l'armonia che collega le tre Mostre. Non c'e' una Torino tutta conclusa nel suo passato e una Torino improvvisatasi moderna: c'e' una sola Torino, dove il lavoro moderno non e' altro che l'aggiornamento del suo vecchio e glorioso coraggio.

(Tratto da "Italia 61 - La celebrazione del primo centenario dell'Unita' d'Italia" a cura del Comitato Nazionale per la Celebrazione del Primo Centenario dell'Unita' d'Italia)